giovedì 30 luglio 2020

Angelo DI LIVIO


Se giochi per anni insieme a tanti campioni – scrive Valerio Nicastro su Delinquentidelpallone.it – senza mai essere messo in discussione, senza che mai nessuno metta in dubbio il tuo posto, magari pensando di sostituirti proprio con uno di quei campioni, se la gente si emoziona, esulta, festeggia insieme ai campioni, ma poi è te che decide di ergere a idolo, vuol dire che hai dentro qualcosa di straordinario. Qualcosa di speciale che spinge i tuoi allenatori a fare di te un pezzo irrinunciabile delle loro squadre. Qualcosa di speciale che spinge i tuoi compagni a fidarsi ciecamente di te. Qualcosa di speciale che lega il tuo cuore a doppio filo con quello dei tuoi tifosi, della tua gente.
E se quel qualcosa di speciale si colloca in mezzo al petto, che sia cuore o polmoni poco importa, se quel qualcosa di speciale sono le tue infaticabili gambe costrette a fare su e giù senza sosta, su e giù ad arare la fascia senza mai fermarsi, la tua storia può diventare indimenticabile. Diventare una storia di successi, d’amore, e soprattutto di corsa e di sudore: la storia di Angelo Di Livio, professione soldatino.
Un soprannome che racconta tante cose. Racconta l’attitudine di Angelo ad abbassare la testa e a correre, correre, correre, a testa bassa e a testa alta, su e giù sulla fascia. Racconta la vocazione al sacrificio, la voglia di non uscire mai dal campo senza aver sudato fino in fondo la maglia. Racconta la capacità di adattarsi a tutte le richieste dell’allenatore, per il bene della squadra. A destra, a sinistra, più avanti, più indietro, da esterno di centrocampo, da terzino. Angelo Di Livio problemi non se n’è mai fatti. La fascia era il suo regno. Partiva, e non si fermava. O lo buttavano giù, oppure alzava la testa e buttava in mezzo i suoi palloni. E poi via, di nuovo, indietro, fino al novantesimo.
È diventato un idolo dei tifosi bianconeri, anche se poi hanno un po’ storto il naso quando qualche anno fa Soldatino disse che nel suo cuore di tifoso c’era la Roma. Ma lui, per la maglia bianconera ha sempre dato l’anima e il corpo. Il cuore e i polmoni. E i tifosi della Vecchia Signora, in fondo, non se lo sono dimenticati di certo: gli hanno dedicato una delle stelle dello Juventus Stadium. Perché il tifo è una cosa, l’amore per la maglia che indossi e quello per la gente che per te fa il tifo un’altra. E non sono confliggenti, per niente».
Arriva alla Juventus nell’autunno del 1993, su espressa richiesta di Giovanni Trapattoni: «Sono riuscito a coronare, con fatica e non in verdissima età, quello che è stato un obiettivo al quale ero ripetutamente andato vicino senza però mai raggiungerlo. E se ho giocato in A, e per di più con la Juventus, devo ringraziare soprattutto i miei vecchi allenatori Colautti e Sandreani e il direttore sportivo patavino Piero Aggradi. Quindi, pur rimanendo sempre con i piedi per terra, mi è sembrato di toccare il cielo con un dito. La molla che mi ha spinto da sempre era la voglia di arrivare e la capacità di sacrificarmi, in campo, come nella vita di tutti i giorni. Se non fosse per questo, non mi sarei ritrovato a vivere un vero e proprio sogno, dal quale non mi sarei voluto svegliare mai».
Diventa, in breve, una colonna della squadra; con l’arrivo in panchina di Marcello Lippi comincia a fare incetta di trofei: scudetto e Coppa Italia nel 1994-95, Supercoppa di Lega e Champions League la stagione successiva, Coppa Intercontinentale, Supercoppa europea e scudetto nel 1996-97, ancora scudetto nella successiva stagione.
Il campionato 1998-99 è l’ultimo di Angelo con la maglia della Juventus; le cose vanno male, Lippi si dimette dopo una sonora sconfitta casalinga con il Parma. Si parla anche di un litigio fra l’allenatore e Di Livio; è un paradosso pensare che questa è stata la stagione che ha evidenziato maggiormente l’incredibile duttilità di Angelo. Tanto è vero che Lippi lo schiera in varie occasioni da terzino vero e proprio, sia sulla fascia destra che su quella sinistra: «L’avere cambiato spesso ruolo è stato importante per me ed è stato il risultato di una serie di fattori: sicuramente le mie qualità tecniche e tattiche, ma soprattutto la bravura di Marcello Lippi. Con lui avevamo parlato spesso della possibilità di giocare in zone diverse del campo. E quando all’occorrenza mi chiese di ricoprire il ruolo di terzino sinistro, mi disse che secondo lui sarei stato assolutamente in grado di farlo. Quindi i complimenti per la buona riuscita dell’esperimento vanno a entrambi».
Nell’estate del 1999, dopo aver indossato per ben 269 volte la maglia bianconera e aver realizzato sei goal, si trasferisce a Firenze: «È stato un po’ traumatico perché mi auguravo un prolungamento del contratto che non arrivò, ma questo fa parte del calcio. Ringrazio questa squadra e sono orgoglioso di avere indossato questa maglia. Gli anni a Torino sono stati importantissimi per me. È stato un onore poter difendere i colori bianconeri. A Firenze non ci sono state contestazioni nei miei riguardi, ma all’inizio un po’ di freddezza sì. Poi pian piano, conoscendo il giocatore, l’uomo e il mio attaccamento alla maglia, è andato tutto per il verso giusto».

NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL DICEMBRE 2012
Al calcio che conta ci arriva con qualche anno di ritardo. Ha già ventisette anni compiuti quando debutta in Serie A. È uno dei misteri buffi del pallone: calciatori nati e cresciuti nei vivai delle grandi squadre che, a forza di maturare altrove, finiscono per inaridirsi, galleggiando nelle serie minori. A meno che uno non si chiami Angelo Di Livio. La tecnica c’è. Il fisico insomma, né alto, né grosso. Un normotipo con uno stile di corsa tutto suo e che, in un certo senso, ne farà la fortuna. Ha fiato. Soprattutto ha testa. La usa in campo, correndo e giocando per la squadra. La usa fuori, convincendosi che non deve mollare, che il treno passerà e bisognerà farsi trovare pronti. Il sogno è Roma, il giallorosso vestito fin da ragazzino, ad ammirare Bruno Conti, il punto di riferimento. Non sarà così, ma per uno di quegli incroci curiosi che solo il calcio sa offrire, la sua città entra nel tabellino dei ricordi perché proprio contro la Roma Di Livio debutta in A il 5 settembre 1993. Con la maglia numero sette della Juventus.
Angelo, cosa ricordi di quel giorno? «Fu una domenica fantastica. C’erano tutti gli amici e i familiari all’Olimpico. L’unico dispiacere era per mio padre Amerigo, che non c’era più. Quella soddisfazione avrei voluto condividerla con lui».
Non ci speravi più? «Gli anni stavano passando. La Roma aveva venduto il mio cartellino, in me non credeva più. La speranza in realtà non l’ho mai persa, ma non è stato semplice. Giravano voci di mercato, ma alla fine niente».
Di quali squadre si parlava? «Del Parma, della Sampdoria, anche della stessa Roma che, forse, ci aveva ripensato. Giocavo in B, al Padova. Ci ero arrivato nel 1989 dopo una bella gavetta tra Reggiana, Nocerina e Perugia. Non ero messo poi tanto male e avevo già vinto molto. Il Padova puntava alla promozione ed io ero uno dei punti di forza».
Insieme a un certo Alessandro Del Piero, all’epoca non ancora diciottenne. «Un fenomeno, soprattutto un bravo ragazzino. Educato, umile, sereno. Nelle partitelle del giovedì, quelle in cui Alex giocava con la Primavera, i dirigenti ci dicevano di andarci piano, evitando entrate dure: Del Piero era un patrimonio».
E voi? «Non era semplice, perché lui ci faceva veramente diventare matti con le sue invenzioni e i suoi dribbling. Di stecche ne ha prese».
La vostra amicizia è nata in quegli anni? «Sì. Lui non aveva la macchina, spesso lo portavo al pensionato. Nonostante la giovane età, era molto più avanti dei suoi coetanei. Ci siamo subito trovati, anche se il rapporto si è consolidato a Torino».
Tra l’altro, nel tuo arrivo alla Juve, c’è anche il suo zampino, giusto? «Beh, sì, anche se indirettamente. Tutto è nato dopo l’amichevole Padova-Juventus dell’agosto 1993, una partita legata al trasferimento di Alex in bianconero. Il motore dell’operazione fu Piero Aggradi, il diesse del Padova, amico di Boniperti con cui aveva giocato negli anni Cinquanta nella Juve. Devo molto a lui: mi voleva bene, fin dai tempi comuni di Perugia, esperienza condivisa con Colautti e Sandreani, poi ritrovati tutti al Padova».
Cosa fece Aggradi? «Sapeva che Trapattoni era alla ricerca di un’ala destra. Allora disse a Boniperti e al Trap: “Visto che ci siete, date un’occhiata a Di Livio”».
Tu sapevi qualcosa? «Diciamo che Aggradi mi teneva sempre sulla corda. Quella volta mi disse chi c’era in tribuna a vedermi».
E tu? «Io ho giocato con naturalezza, senza strafare. Feci una buona gara duellando con Andrea Fortunato che poi, quando sono andato a Torino, ho avuto come compagno di camera. Un ragazzo d’oro».
La Juve all’improvviso e la tua carriera svolta. «In effetti, successe tutto molto in fretta. A Trapattoni ero piaciuto, così pochi giorni dopo l’amichevole andai a Torino per parlare con Boniperti. Ricordo il viaggio Padova-Torino: per me fu una passeggiata di salute».
Andasti da solo? «Con me c’era Oscar Damiani, il mio procuratore. Boniperti ci accolse nel suo ufficio e la prima cosa che mi disse fu: “Ricordati che se arriviamo secondi, abbiamo perso”. Poi mi mandò subito dal barbiere. Effettivamente avevo dei capelli scandalosi, corti davanti e lunghi dietro, un tamarro stile Duran Duran. Dopo il taglio, tornai nel suo ufficio per firmare il contratto».
Immagino un bel miglioramento economico. «Macché! Mi confermarono quello che avevo con il Padova. A gennaio mi fu ritoccato e allungato, ma niente di che. Il salto di qualità c’è stato solo dopo le prime apparizioni con la Nazionale».
Cosa hai fatto con i primi soldi veri? «Ho investito in immobili e mi sono tolto anche qualche sfizio: auto, orologi. Ma il chiodo fisso era la casa. Vengo da una famiglia normale: mio padre operaio e mia madre Antonia casalinga, oltre a mio fratello che faceva il benzinaio. Vivevamo a Roma, quartiere Bufalotta, si faceva un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Io ho smesso di studiare dopo la terza media e ho iniziato a lavorare in un negozio di casalinghi, poi in uno di scarpe. Mattina lavoro, pomeriggio allenamenti. Ho imparato il senso del sacrificio e il gusto per la conquista, mentre mi rode un po’ non aver studiato di più».
Come sono stati i primi tempi a Torino? «Non facili. Mi sentivo molto bloccato, la testa era piena di dubbi. Sono sempre stato un tipo emotivo, la notte prima delle partite facevo fatica a dormire. Durante l’intervallo capitava di fumare di nascosto una sigaretta per smorzare la tensione. L’anno prima al mio posto c’era un big come Di Canio, adesso c’ero io, esordiente in A. Mi suonava male questo cambio».
Poi cosa è successo? «È successo che Trapattoni mi ha tolto i freni. Aveva bisogno di un’ala desta che coprisse tutta la fascia e che sapesse sia attaccare che difendere. Cosa che Di Canio non gli garantiva, per esempio. Mi sono tolto la paura e, anche grazie ai consigli di Sergio Brio (il vice del Trap quell’anno, ndr) e con l’aiuto dei nuovi compagni, ho preso il volo. Dopo la prima gara non sono più uscito di squadra».
Diventando il Soldatino preferito del Trap. «Devo molto a Trapattoni. Ha rischiato per me, si è preso una bella responsabilità nell’affidarsi a uno sconosciuto che veniva dalla B. Gli sarò sempre riconoscente, ma la storia del soldatino non sta così».
E com’è, allora? «Il soprannome me lo diede Roberto Baggio per il mio modo di correre, spalle strette e braccia distese lungo i fianchi. Un giorno, durante un allenamento, si volta verso di me e mi fa: “Sembri un soldatino”. Da li è nato il nomignolo, al quale, lo dico con totale sincerità, sono molto affezionato».
La storia con Trapattoni, però, dura solo un anno: nel 1994 alla Juve c’è il grande ribaltone.
«In realtà non ci colse di sorpresa. Già durante l’anno Bettega aveva affiancato Boniperti. Poi a fine stagione nelle amichevoli, ci guidò Narciso Pezzotti, il vice di Lippi che sarebbe stato il nostro nuovo allenatore. In quelle partite io fui provato come mediano».
Com’è stato il passaggio da Trapattoni a Lippi? «L’impatto fu positivo. Non c’erano poi così tante differenze di impostazione. Tutti e due lavoravano parecchio sulla testa dei giocatori. Diciamo che Lippi era molto bravo a preparare le partite. Cosi come sapeva leggere benissimo la gara e modificare sistema di gioco e uomini. È stato il vero artefice del giocattolo bianconero che ha dominato in Italia e nel mondo».
E la triade? «Bettega era l’uomo Juve, il primo tifoso. Con Giraudo scommettevamo bottiglie di champagne sui miei goal, con un accorgimento: lui pagava tre volte la posta. Moggi era il punto di riferimento. Un uomo scaltro e abile che ha dato lavoro a tanti. Ha sbagliato, sicuramente, e ha pagato, ma era in buona compagnia. A Roma si dice: “Il più pulito ha la rogna”: questa frase sintetizza al meglio Calciopoli, che non era solo Moggi. Il quale, in realtà, aveva altri e più gravi difetti».
Ossia? «I vestiti! Inguardabili! E noi gli dicevamo: “Direttore, ti sei vestito al buio stamani?” Oppure gli consigliavamo l’acquisto di qualche rivista di moda per limitare i danni. Ma con scarsi successi. Con lui, comunque, ho discusso molto, specie per l’addio nel 1999».
Cosa successe? «Mi aveva promesso la conferma, poi iniziò a dirmi che c’erano alcune squadre che mi volevano. Tutto questo mentre si parlava degli arrivi di Bachini e Zambrotta. E chi sono, dissi io? Già un’altra volta avevo ingoiato amaro, quando arrivò Lombardo. Ma poi la storia lì era stata diversa. Stavolta era il chiaro segnale che me ne dovevo andare. La presi male, per fortuna che scelsi Firenze, fortemente voluto dal Trap. Però uno scherzetto a Moggi poi lo feci».
A cosa ti riferisci? «Quando spostai la barriera e feci segnare Chiesa durante un Fiorentina-Juventus da avversario. A fine partita mi fa: “Questa non ce la dovevi fare”. Ed io: “Ma quando lo facevo prima, non ti lamentavi, però”».
Torniamo al campo e all’altra novità stagionale dell’estate 1994: Gianpiero Ventrone. «Non avevo mai lavorato tanto prima di Ventrone. Pesi, corsa, palestra, addominali: un massacro. Di tutte le diavolerie inventate, ricorderò sempre la rampa fatta montare sulla pista d’atletica del Comunale, dove ci allenavamo. Due tavole, a capanna: salita e discesa. Le ripetute si facevano lì. Una fatica pazzesca».
E la famosa campanella della vergogna? «Era il simbolo della resa, e quindi il nostro nemico, ma in pochi l’hanno suonata. Quello era un gruppo di gente unita e, soprattutto, affamata di vittorie. Lo si vedeva nelle partitelle. Non sai quante volte siamo venuti alle mani. È successo tra Vialli e Ravanelli, per esempio. Io più di una volta mi sono preso con Montero, un altro sanguigno. E volavano pizze per davvero».
Allora non eravate un gruppo così unito? «Ti sbagli! Il gruppo era veramente un muro. E non sono frasi fatte. Era la realtà. Ti dico che noi ci sentivamo una famiglia, che ha pure i suoi scazzi e le sue giornate storte, ma che è unita e salda. C’era molto rispetto tra noi, soprattutto verso l’errore del compagno. Grande merito in questa prima fase lo ebbe Gianluca Vialli. Ricordo sempre il primo anno di Lippi, dopo le partite di Coppa Uefa. Ci invitava a casa sua a mangiare. Spaghetti cucinati da lui e spirito di squadra che cresce. Ci è dispiaciuto molto quando è andato al Chelsea. E so che è dispiaciuto anche a lui».
Oltre a Vialli, chi aveva peso nello spogliatoio? «Francamente un po’ tutti, se vai a leggerti le formazioni vedrai nomi di giocatori di grande personalità. Di altissima considerazione ha sempre goduto Del Piero che, in quei primi tempi, era veramente un ragazzino. Eppure se c’era da parlare con il mister per togliere una multa a un compagno o per discutere di scelte tattiche, Alex faceva parte del “senato” bianconero».
C’era anche lui nel dopo Foggia, autunno 1994, a discutere con Lippi? «Lì, in pratica, c’eravamo tutti. E fu la svolta della stagione. Dopo la sconfitta per 2-0 a Foggia, Lippi ci disse chiaro e tondo che si era stufato di vedere la squadra che rinculava e subiva. Se proprio dobbiamo rischiare, disse, allora andiamo avanti. Da lì nacque l’idea del tridente, una mossa vincente anche perla fase difensiva, visto il lavoro che facevano i tre là davanti».
Di lì in poi è un’altra Juve, arrivano i risultati e la classifica si fa sempre più interessante. «Tatticamente eravamo perfetti, con Paulo Sousa regista e i tre attaccanti, con Del Piero spesso al posto di Baggio. La cosa fantastica è che fisicamente eravamo straripanti. Andavo in campo e avevo sempre “la gamba”. Non mi era mai successo prima».
Nessun aiutino? «Ma non scherziamo, per favore. Si lavorava tantissimo durante la settimana. In campo e in palestra. Eravamo una squadra composta da grandi professionisti, con voglia di vincere. E se vinci, ti alleni più volentieri e senti meno la fatica. Io, come i miei compagni, difenderò sempre quello che abbiamo fatto, contro tutto e tutti».
Zeman compreso? «Non abbiamo mai capito, né condiviso le sue dichiarazioni. Dispiace che ne parli ancora adesso».
Torniamo al campo e a uno dei tuoi marchi di fabbrica: la frenata. «Era la mia arma, carpita al mio idolo Bruno Conti. Tutti la conoscevano, eppure in pochi riuscivano ad arginarmi. L’episodio più bello con Panucci che, prima di Juventus-Milan del 30 ottobre 1994, mi dice: “Non la fare quella finta, tanto io non ci casco”. Io la feci, lui abboccò e Baggio segnò il goal partita. A fine gara, mi avvicino e gli dico: “Meno male che c’erano i cartelloni pubblicitari, sennò chissà dove finivi”».
Ottima battuta, altro elemento del tuo repertorio di animatore da spogliatoio. «Non si può lavorare senza scherzare, per me il binomio è inscindibile. La sera pensavo a cosa fare il giorno dopo ai miei compagni. E ne ho combinate diverse».
Facciamo una lista. «Oltre ai classici gavettoni, ci sono le scarpe incollate alla tavoletta di legno, quella che una volta c’era negli spogliatoi, in alto. A qualcuno spostavo la macchina dal parcheggio, ad altri la facevo trovare sporca di fango. Poi c’era tutta la gamma dei tagli: dalle cravatte alle mutande, specie quelle orribili che qualcuno riusciva a portare. Uno degli scherzi più belli lo feci a Ferrara, quando gli tagliai le punte dei calzini. Non si accorse di nulla, dovevi vedere la faccia che fece quando arrivò a infilarseli».
Chi era la tua vittima preferita? «Posso dirti a chi non ho mai fatto uno scherzo: Julio Cesar. Si vestiva in maniera scandalosa, ma era una montagna».
Ridendo e scherzando, la Juve vince lo scudetto dopo nove anni e torna in Coppa dei Campioni. «Il debutto in Champions lo ricordo benissimo anche perché per me ci fu un mezzo trauma. Due giorni prima della partita, Lippi mi dice che giocherò terzino sinistro. Terzino sinistro? In quel ruolo non ci avevo mai giocato. Ma ci pensò il mister a tranquillizzarmi: “Per me tu lì farai benissimo, fidati”. È andata veramente così, e in quel ruolo ho giocato tante altre volte».
Mi sembra che da lì in poi tu abbia girato molti ruoli, segno di una grande disponibilità. «La generosità è sempre stata una mia prerogativa. Sono stato sostituito spesso, perché arrivavo a venti minuti dalla fine con la spia dell’olio accesa. Quanto alla duttilità, io credo che la voglia di adattarsi ti viene dalla tua storia. Marcello Lippi è stato bravo a capire questo di me e a darmi fiducia. Un grande».
Senza difetti? «Era permaloso, questo sì. Ma sapeva anche perdonare. Ricordo una sostituzione contro la Fiorentina. Esco e lo mando platealmente a quel paese. Ero furibondo. Il martedì successivo, pentito, busso alla porta del suo spogliatoio per scusarmi. Lui apre, e prima ancora che io parli, mi offre il “cinque” con la mano, Ed è finita così».
C’è stata qualche altra decisione del tecnico che ti ha fatto venire il mal di fegato? «Su tutte la sostituzione nell’intervallo della finale di Champions contro il Real Madrid. Eravamo sullo 0-0. A ruota l’esclusione dalla formazione titolare nella finale del 1996 all’Olimpico. La cosa buffa è che, pochi giorni prima della partita. Lippi ci riunisce per dare la formazione e fa al gruppo: “Di Livio sta meglio di tutti, ma per scelta tecnica non gioca”. Non l’ho capita ‘sta cosa che sto meglio di tutti, ma non gioco. Comunque sia, il nostro motto era: chi è in campo, gioca. Chi è fuori, fa il tifo».
Ma all’Olimpico ti sei rifatto. «Davids stava crescendo in mezzo al campo. Conte era uscito per infortunio e il mister mi buttò dentro al posto di Paulo Sousa che faceva fatica. Ne avevo per due quella sera, nel mio stadio».
Lo si è visto alla fine con la coppa conquistata. «È stato uno sfogo, una liberazione. Durante i rigori ero abbracciato a Torricelli e ci dicevamo: “Mamma mia com’è piccola la porta! E se dovesse toccare a noi?” Alla fine mi è partita la brocca. In mutande, urlavo e piangevo. Felicissimo come un bambino».
E dopo la Champions, ecco Tokyo. «La mia partita perfetta. Giocai veramente bene. Quella volta Lippi non ebbe dubbi e mi schierò titolare. Avevamo rivoluzionato la squadra. Non c’erano più Vialli e Ravanelli. Al loro posto Bokšić, un carrarmato pazzesco, e Zinedine Zidane».
Che ricordi hai di Zizou? «Arrivò in punta di piedi. Timidissimo, all’inizio fece fatica. Io, tanto per farlo sentire a suo agio, lo bersagliavo di scherzi. E lui si vendicava in partitella. Ti faceva ammattire, era meglio ignorarlo. Ma qualcuno andava giù duro. D’altronde lui si esaltava con il contatto fisico, se lo marcavi a uomo, tirava fuori il meglio del suo repertorio. Che era fantastico».
Ma uno come lui, si allena anche nella tecnica? «Qui sta la grandezza dei campioni veri. Lui, ma anche Del Piero e Vialli, si allenavano tantissimo, stavano ore sul campo. Davano l’esempio, sempre. Anche perché vale il principio che uno come si allena, gioca».
Come fu preparata la sfida contro il River Plate? «Nessuna situazione diversa dal solito. Solo la consapevolezza di giocarsi in una gara secca un traguardo importante che per noi significava completare un ciclo bellissimo dopo scudetto e Champions».
Hai dormito la notte prima della gara? «Quella notte lì ho faticato a chiudere occhio, mentre il mio compagno di camera dormiva beatamente, russacchiando pure».
Del Piero? «Sì. E pensare che i primi tempi era lui che se ne stava sveglio tra telefonini e play station. Era un bel cacacazzi. Io non vedevo l’ora di dormire, e lui a divertirsi. A Tokyo ci scambiammo i ruoli».
Un cambio vincente, visto il risultato finale. «Fu una partita eccezionale, posso dire una delle più belle giocate con la Juve, insieme al 6-1 contro il Milan a San Siro. E se Bokšić non mi chiama la palla, faccio anche goal».
Ne hai fatti pochini con la Juve. «Sì, ma tutti di qualità e legati ad alcuni aneddoti. Per esempio quello contro la Steaua, il mio primo e unico in Champions, dette il via all’esultanza in cerchio, tutti in ginocchio. Al pallonetto goal al Vicenza è legata una battuta dell’avvocato Agnelli che disse che in realtà avrei voluto crossare».
Fischio finale e spazio libero alla gioia per l’ennesimo trionfo internazionale. «Un’altra scarica di adrenalina violentissima. Mi tolsi le scarpe e me le misi al collo. Ho sempre avuto l’abitudine di giocare con i sei tacchetti, a Tokyo il campo era durissimo, e i piedi mi facevano male. Non l’avessi mai fatto. Mi chiamò lo sponsor e mi fece il cazziatone: “Ma come, in un momento così ti togli le scarpe, ma sei impazzito?”. Poi iniziano a circolare le foto con me a mezzo busto con le scarpette in mano e al collo, visibili più che mai».
Tutto questo è accaduto prima o dopo la scimmia post-partita? «Dopo, dopo. Quella sera molti di noi erano sdraiati per terra. Eravamo al quarantesimo piano dell’albergo, ma quella notte credo che non abbia dormito nessuno dal macello che facemmo. Poi, a un certo punto, crollammo. Ed io e Alex andammo a dormire con la coppa».
Il ciclo virtuoso si chiude con l’ultimo trofeo del Grande Slam, la Supercoppa Europea. «Tra gennaio e febbraio 1997 vincemmo anche quella schiacciando il PSG: 6-1 a Parigi e 3-1 al ritorno».
Ma è vero che avevi indovinato il risultato dell’andata, scrivendotelo sul braccio? (ride) «Così vuole la leggenda. In realtà quella era la sigla che indicava il premio promesso dalla Juve in caso di vittoria: sessanta milioni di lire per ognuno di noi!».

1 commento:

Giuliano ha detto...

Avercelo ancora!!!
Era sempre lì, a ricevere il passaggio e a scattare in avanti. Non so come facesse, ma c'era sempre...